Lav Diaz non è arrivato per caso al Leone d’oro appena vinto a Venezia con The Woman Who Left. Anche se sconosciuto al grande pubblico, è da molti anni uno degli autori più rispettati dai cinefili, venerato in cerchie prima ristrette e poi via via sempre più ampie. Già vncitore prima di Venezia di un altro festival, quello di Locarno 2014, con From What is Before. Ecco la recensione di allora.
Mula Sa Kun Ano Ang Noon (From What Is Before – A priori) di Lav Diaz. Con Hazel Orencio, Perry Dizon, Karenina Haniel. 338 minuti. Concorso internazionale.
Eccolo, il film-moloch del regista filippino Lav Diaz lungo 5 ore e quaranta minuti tanto atteso, e già evento di questo Locarno 67. Capolavoro annunciato, ma non realizzato, anche se i momenti di cinema grande sono tanti e abbondanti. Solo che From What Is Before sembra fatto di due film male saldati insieme. Per tre ore e passa sembra di assistere a un docu etnografico su un villaggio filippino anni Sessanta. Poi di colpo si entra nel cinema politico e nella Storia, con il regime di Marcos e l’occupazione militare del villaggio. Qualcosa che sta tra Flaherty e Novecento di Bertolucci. Comunque lo si guardi, enorme. Potrebbe vincere il Pardo. Voto: tra il 6 e il 7
Ieri, ore 15, prima proiezione stampa di questo film-mostro, il moloch che rischia di divorarsi, per le sue dimensioni e il suo peso, il festival e forse anche chi lo va a vedere. Oggi lo screening per il pubblico, alle 16,15 a La Sala. Non che abbia prodotto tra ieri e oggi chissà quale buzz. Tutti ad aspettarlo spasmodicamente, almeno a parole, però poi a vederlo ieri nella sala del Kursaal saremo stati sì e no una trentina di giornalisti, molti meno che per Lucy di Luc Besson dato subito prima, e moltissimi di meno di quelli che ci sarebbero andati più tardi per Dancing Arabs di Eran Riklis. Si sa, la mole spaventa, i buoni e cattivi motivi, e le scuse per evitarlo son tante, ai festival ci sono mille impegni ecc. ecc. ecc. Però sant’Iddio, non dico la ressa, ma un po’ più di gente no? Un po’ più di attenzione? In fondo, Lav Diaz, piaccia o meno, è un autore conclamato, già regista di parecchi lungometraggi assai lunghi, due anni fa era a Cannes a Un certain regard, anche se con un film di sole 4 ore, tre anni fa era a Venezia. L’anno scorso qui a Locarno era il presidente della giuria. Dunque, diserzione inspiegabile. Non son bastate però le cinque ore e 38 minuti (senza un secondo di intervallo) di questo A priori, così il titolo italiano, a produrre il capolavoro tanto atteso, il film destinato a marchiare indelebile questo Locarno 67. Film da vedere però, indispensabile anche per quello che non è, fors’anche da premiare (vediamo se poi strada facendo emergerà di meglio). Ma al di sotto di quello presentato dal regista a Cannes nel maggio 2012 (ora non ho tempo di recuperare il titolo e la mia recensione, scusate), che non annoiava quasi mai e aveva una solida struttura mutuata da Delitto e castigo di Dostoevsky. Stavolta invece si vagola per le prime tre ore, anzi per l’esattezza per tre ore e venti, in una voluta antinarrazione assai rigorosa e penitenziale, in un cinema radicalissimo e estremissimo di quasi pura visione e contemplazione, con tutti segni e i vezzi e pure i vizi dell’autore che sa di essere tale e lo vuol mostrare al mondo. Il bianco e nero, per cominciare. L’uso ossessivo della camera fissa (che, insieme al suo opposto, il piano sequenza interminabile) è la griffe oggi del cinema nobile. Tableaux vivants o quasi, con personaggi inquadrati da lontano che poi si muovono lentissimamente fino a portarsi in primo piano, sempre con macchina da presa che non si scosta di un millimetro, e intanto passano quei dieci minuti buoni e anche di più. Cinema ipnotico che scommette e gioca sulla percezione (nostra), e un filo zen, con qualche analogia con Tsai Ming-liang. Narrazione sfrangiata-frantumata, racconto a dir poco ellittico se non latitante. Sottostorie e personaggi presentati lateralmente, attraverso dettagli irrilevanti, acciocché lo spettatore con molta fatica e molta pena riesca a mettere insieme un qualsiasi quadro leggibile. Aggiungete poi facce asiatiche (e non tacciatemi di razzismo, je vous en prie) che rischiano di sembrare ai nostri occhi tutte molto somiglianti, e capirete la difficoltà. Facciamo comunque conscenza di due sorelle, una malata psichica l’altra che l’assiste con una dedizione commovente, e che per mantenersi fan le guaritrici. Perché – siamo negli anni Sessanta in un villaggio filippino a casa di Dio vicino al mare e ai limiti di una foresta – dove la modernità ancora non si sa cosa sia, e dove accanto al cristianesimo sopravvivono pratiche animiste. Si invocano gli spiriti, li si teme, si cerca di ingraziarseli. Ma c’è anche un parroco di forte tempra che un po’ chiude gli occhi su quelle pratiche un po’ cerca di scoraggiarle. Intorno, altri e vari personaggi del villaggio, tra cui uno zio e un nipote dalle origini complicate e un po’ mitologiche, e un’ambigua venditrice di stoffe e casalinghi ambulante di casa in casa. La vita è come fissata in un eterno ritorno, in un tempo circolare e pre-storico alla Mircea Eliade. Succedono strani fatti – delle mucche massacrate, il cadavere di uno sconosciuto trovato sulla strada, un misterioso incendio – ma niente sembra scuotere davvero la vita del villaggio. Per più di tre ore Lav Diaz prosegue con questa sua minuziosa cronaca, tant’è che viene da pensare a un cinema etnografico, a una voglia documentaria alla Flaherty, alla Jean Rouch. Poi cambia tutto. Dopo tre ore e venti estenuanti, all’insegna della ripetizione spesso neanche differente, in cui sei tentato più di una volta di gettar la spugna nonostante le molte meravigliose e ipnotiche immagini, arriva di colpo la svolta. In ogni senso. Di storia, di ritmo, di narrazione, di stile. Siamo ormai nei primissimi anni Settanta, Marcos è arrivato al potere, un gruppo di militari si insedia nel villaggio, spiegando agli allibiti abitanti come sia necessario presidiare il territorio per via della presenza là nella foresta di gruppi di resistenza (si suppone comunista) al nuovo presidente golpista. Cambia anche l’approccio di Diaz alla materia e al suo film. Dall’antinarrazione, dalla contemplazione, dal tempo circolare, si passa allo sviluppo narrativo deciso, alla linearità e alla verticalità temporale, i fatti cominciano a susseguirsi non dico incalzanti (è una parola che con Diaz proprio non si può usare), ma a succedere sì. Si passa dalla non-storia, o dalla-pre-storia, alla Storia. Il villaggio man mano si svuota, la gente scappa impaurita dai militari. Ma qui saltano fuori incongruenze a cascata. Com’è possibile che vicino al villaggio ci sia un nucleo di resistenti se per tre ore e mezzo nessun abitante ne ha mai incontrato uno, e neppure ne ha scorto la minima traccia. Diaz prima di arrivare a questa svolta qualcosa ci avrebbe pur dovuto dire e mostrare, sennò non si giustifica l’arrivo dell’esercito. Come non sta in piedi la fuga di massa degli abitanti. C’è da dire però che questa seconda parte, benché non saldata alla prima, è quella che mette a segno i colpi drammaturgicamente migliori. La gran scena delle due sorelle davanti all’oceano, il funerale sull’acqua. Con il film che si fa via via sempre più politico e di denuncia di quel che fu il regime di Marcos. Con perfino le atrocità di una milizia che ricordano The Act of Killing (in fondo, l’Indonesia non è poi così lontana dalle Filippine, sempre nello stesso scacchiere geopolitico siamo). Alla fine si esce estenuati, e con l’impressione di aver visto film diversi che non ce la fanno a incastrarsi uno nell’altro. Diaz passa dal cinema etnografico-contemplativo e rarefatto a una specie di Novecento bertolucciano in versione flippina, dove la storia di un villaggio si fa storia di una nazione. Ma c’è anche il melodramma popolare, e del più turgido, e allora facciamo fatica a pensarlo, questo A priori, come un qualcosa di compatto e coerente.