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Locarno Festival 2015. Recensione: JAMES WHITE. Il primo film del concorso si piazza subito per un premio

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getJames White, un film di Josh Mond. Con Christopher Abbott, Cynthia Nixon, Scott Mescudi. Concorso internazionale.get-2Il primo film del concorso è una bella sorpresa, altroché. Arriva dal Sundance questa storia di un ragazzo sballato che si trova a dover fronteggiare la malattia della madre. Il terzo film in pochi mesi dopo Mommy e Mia madre sulla relazione simbiotica tra madre e figlio maschio. Anche, un racconto di formazione in una New York confusa e delirante. Potrebbe vincere qualcosa. Voto 7 e mezzo
get-1Viene dal Sundance, questo film di un regista newyorkese poco più che trentenne che ha aperto il concorso internazionale e subito si è piazzato come possibile vincitore. Anche se potrebbe penalizzarlo il fatto che sia qui non in prima mondiale, ma solo internazionale, e qualche giurato potrebbe non gradire la mancata primogenitura. Sì, è l’anno (festivaliero) dei film assai edipici sulla relazione simbiotica, osmotica e chissà cos’altro tra madri perlopiù sofferenti e figli maschi che svariano dall’età adoescenziale a quella assai matura. Prima Mommy di Xavier Dolan, poi Mia madre di Nanni Moretti, adesso questo James White. Dove un confuso ragazzone della tentacolare e frenzy (come dice il pressbook) NY d’oggidì si trova a dover fronteggiare il cancro della madre (Cynthia Nixon, la Miranda di Sex and the City qui quasi irriconoscibile e molto, molto brava) e il suo progressivo peggiorare e decadere, esattamente come nel film di Moretti. Tutt’altro ovviamente è il modo di raccontarla, la storia della mamma che se ne va, e visto che qui siamo nel più puro e anche codificato cinema indie americano anzi manhattaniano-brooklynese, tutti i vezzi del Sundance- e Tribeca-movie sono presenti. A partire dall’uso incontinente della macchina a mano o a spalla, insomma l’handycam e steadycam, feticcio di ogni autor giovane che voglia farsi rispettare, e dunque ecco che si parte con una sequenza (un piano sequenza) in un club dove corpi e facce si mescolano nell’indistinto caracollare e agitarsi al suono della solita musica pum-pum, e non capiamo nemmeno se il protagonista James stia ballando con un ragazzo o una ragazza. Scopiremo di lì a poco, mentre parla con un suo storico amico, di aver provato tutti e due i lati della sessualità, ma mentre l’amico ormai ha sposato in toto la gaytudine il nostro sta ancora indeciso. Del resto, James è indeciso a tutto, mica solo sul sesso, non sa che fare della sua vita, il lavoro non ce l’ha e manco lo cerca, del resto uno dall’anarchismo irriducibile come lui (molto alcol, parecchie sostanze alteranti, scoppi di collera e botte a chi capita sottomano) neanche saprebbe mantenerlo, un lavoro. Unico ancoraggio, unica certezza la mamma. Lei ha avuto un tumore al seno, lui si occupa di lei con affetto e dedizione d’altri tempi e d’altre famiglie. “Non ti voglio abbandonare”, e lei: “Ma tu stai con me perché non hai soldi, dici di accudirmi ma ti fai mantenere da me”, è lo scambio illuminante tra i due. Un film sotto il segno della malattia e della morte, alla faccia di chi sostiene (me compreso) che questi ggiovvani del giorno d’oggi non san fare i conti con la realtà dura, e invece qui per la prima volta capita di vedere un ragazzotto che non si tira indietro di fronte al deteriorarsi della carne, al puzzo di ospedale e di cattivi umori corporali. Si parte col funerale di papà, che peraltro James non vedeva da un bel po’, che intanto s’era rifatto una famiglia sposando un’asiatica e figliando con lei, e il party funebre è un gran casino relazionale per via di questa famiglia allargata ma spaccata, con rancori e amori distribuiti su vari fronti in egual misura. James passa da una sbronza all’altra, e per fortuna che c’è il suo amico, forse ex amante, che gli sta dietro, a lui, e alla madre di lui anche. La quale, mentre James è in un resort messicano a prendersi una pausa di riflessione (da che?), si riammala, metastasi ovunque, quadro clinico pessimo, chemio massiccia da ricominciare. Comincia la discesa, con James che trascura tutto pur di non mollare quella donna che è l’unica cui riesce davvero a voler bene. E man mano il film si trasforma in un corpo a corpo, in una fusione tra il corpo di James stampella della madre e quello di lei in via di dissoluzione. Nessuna tappa del degrado fisico e mentale viene sottaciuta, e giustamente. Mentre la camera a mano segue impazzita e impassibile quel progressivo avvinghiarsi del sano alla malata. Gran film, ecco, che non ti aspetteresti da un giovane regista. Che ha il solo torto di esagerare qua e là in dialoghi madre-figlio un filo lamoyant e sentimentaloidi (il sogno della vita a Parigi, per dire). Ma è una pecca minima in un’ottima riuscita. Al momento (è giovedì, ore 14,45) James White è il meglio dei sette film che ho visto.


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