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Locarno Film Festival 2023. Recensione di CRITICAL ZONE, il film vincitore del Pardo d’oro

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Mantagheye Bohrani (Critical Zone) di Ali Ahmadzadeh. Iran 2023. Concorso internazionale. Voto 7 e mezzo
Recensione scritta qualche ora prima che a Critical Zone fosse assegnato il Pardo d’oro del Locarno Film Festival 2023. Film iraniano girato clandestinamente da un regista, Ali Ahmadzadeh, “fuorilegge” come Jafar Panahi. Cronaca durissima e senza sconti da un paese che non è quello della propaganda. Uno spacciatore ci guida attraverso l’altra faccia di Teheran, quella che il regime nasconde.
Che il consumo di sostanza alteranti, soprattutto eroina e oppio, sia in Iran un fenomeno alquanto esteso lo si sa da tempo. Tema sensibile toccato anche dal cinema, penso allo scatenatissimo, visto a Venezia Orizzonti 2019, Just 6.5 di quel Saeed Roustaee che avrebbe trovato la sua consacrazione a Cannes 2022 con Leila e i suoi fratelli. In Just 6.5 si metteva in scena nei modi del crime la guerra poliziottesca in Iran contro narcotrafficanti grandi e piccoli. Come poi le droghe possano essere così diffuse in un regime asfissiante, dove il controllo della cosiddetta moralità è capillare, resta un paradosso che mi piacerebbe qualcuno spiegasse. Ma non è il caso qui di porre la questione. Certo ci si stupisce della libertà con cui il protagonista di Critical Zone, spacciatore di medio livello, può muoversi e alimentare con ogni possibile sostanza la sua tutt’altro che limitata clientela. Non è certo la prima volta di un film con protagonista un drug dealer, si  pensi solo a Night Sleeper di Paul Schrader o alla trilogia danese Pusher di Nicolas Winding Refn. Mai però lo avremmo immaginato possibile nel cinema iraniano, e con la radicalità di questo film, dove è assente ogni pur minima traccia di condanna morale. Film che apre squarci amplissimi su realtà sommerse ma non troppo, su un paese assai lontano dall’immagine che ne dà il regime dei mullah. Certo, il regista Ali Ahmadzadeh lo ha dovuto girare clandestinamente, essendogli stato proibito, come a Jafar Panahi e altri, di lavorare. Come ci sia riuscito lo ha spiegato il produttore Sina Ataeian Dena, iraniano oggi residente in Germania, unico presente della crew alla conferenza stampa: Ahmadzadeh ha spezzato il tournage in dieci parti, simulando ogni volta di girare un corto, è ricorso a astuzie varie (per la scena all’aeroporto ha finto di essere uno dei tanti che filmano i loro familiari in partenza o arrivo). Non poteva essere a Locarno perché gli hanno anche ritirato il passaporto, solo l’ultima delle vessazioni di cui è oggetto. Non c’erano nemmeno gli attori, quasi tutti amici che ci hanno messo la faccia ma non i nomi: nessuno di loro compare con la propria identità nei credits per evitare di finire nel mirino de pasdaran e altri custodi dell’ortodossia. Critical Zone è un grido di rivolta non solo per l’Iran che mette in scena: sporco, tossico, deturpato, sofferente, per niente conforme ai valori del regime, non solo per come eroicizza (ambiguamente, va detto) il protagonista cui il regista guarda con evidente empatia promuovendolo a una sorta di benefattore dei miseri, di buon samaritano, ma per lo stile adottato, per la forma-cinema, per la lingua cinematografica. Uno stile sporco, sconveniente, per cogliere il degrado e rappresentarlo per mimesi. Una fotografia dai toni lividi, sgranata, opaca, come avvolta dalla polvere. Una macchina da presa nervosa e cattiva che non si dà mai l’obiettivo del bello, se mai del verosimile. Una narrazione affondata quasi completamente (come un altro film del concorso, Nuite obscure di Sylvain George) nella notte urbana, in una Teheran ora desolata e vuota, ora paralizzata da un traffico impazzito. Il protagonista vive solo con un cane, la moglie lo ha lasciato (se ho afferrato bene, lui lascia capire di essere impotente, ma potrebbe essere un mio abbaglio), passa gran parte del suo tempo intorpidito in macchina con, a fargli da navigator, una voce femminile suadente, unica certezza in quel mondo allo sbando. Sembra un looser dei tanti, ma come drug dealer è un’eccellenza. Conosce tutte le sostanze e tutte le procura ai clienti. Confeziona pure budini alla marijuana che smercia, grazie a un’infermiera sua complice, in un ospizio dove li usano per sedare i degenti. Tra i suoi affezionati compratori un manipolo di prostitute transgender, che lo venerano per quanto fa per loro e la gentilezza con cui lo fa. Il climax lo si raggiunge nell’incontro con una insospettabile hostess della compagnia nazionale la quale procura smart drugs e altro made in Amsterdam al protagonista e da lui riceve oppio da smerciare a influenti clienti internazionali: i due vengono scoperti dalla polizia (o forse è una banda rivale?), si danno a un’adrenalinica fuga da action movie ed è per celebrare lo scampato pericolo che la ragazza si sporge dal finestrino e esplode in un urlo, in un fuck you prolungato, selvaggio, sguaiato, violentemente liberatorio, destinato a diventare la scena di culto di Critical Zone, il suo marchio.
Il film non ha uno sviluppo narrativo, è una ripetizione ossessiva di scene del protagonista al lavoro, una sequenza quasi meccamica dei suoi incontri. Fino al misterioso finale (cui ho dato una mia interpretazione, che qui non rivelo per non  spoilerare). Qualcosa come Taxi Teheran di Panahi, solo che qui di mezzo ci sono cannabis, eroina, cocaina, oppio. Fin troppo facile sovraccaricare Critical Zone di significati politici, vederci dentro i prodromi della ribellione che avrebbe percorso l’Iran subito dopo la fine delle riprese. Ci andrei piuttosto cauto*. Il regista non credo voglia lanciare messaggi espliciti, si limita a mostrare il disagio, le invisibili linee di faglia di una società che si pretenderebbe compatta, ed è già molto, intendiamoci. Critical Zone ha più a che fare con certo cinema sovversivo-anarcoide-nichilista alla Buñuel che con quello probo di impegno civile. E se c’è un film cui paragonarlo, e al quale probabilmente il regista ha guardato, è Taxi Driver, per come un uomo al volante ci conduce nel sottosuolo di una metropoli, nei suoi gironi infernali, anche se a differenziarlo dal film di Scorsese è la mancanza nel protagonista di ogni intenzione redentrice o di pulizia morale.
* “Il Pardo d’oro di Locarno 76 a Mantagheye bohrani (Critical Zone) di Ali Ahmadzadeh, inno alla resistenza iraniana e alla libertà”: così annuncia il sito uficiale del festival la vittoria di Critical Zone. Ecco, trasformarlo in film-manifesto della resistenza al regime significa sovrainterpretare lavoro e intenzioni del regista.

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